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Il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.
Voltaire
L’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) ha individuato nel lavoro da stress correlato una delle variabili che contribuiscono maggiormente allo sviluppo di malattie e al carico globale delle stesse, ponendo il focus delle proprie linee guida su livelli “macro”, come le politiche sociali e “meso”, come le variabili organizzative.
Vi sono alcuni termini specialistici che sono diventati di uso comune, quali: “stress lavoro correlato”, “burn out,” “work addiction “(o” workaholism”), equilibrio tra vita privata e lavorativa, trattandosi di argomenti che impattano, come precedentemente detto, a vari livelli. Tuttavia, l’effetto delle variabili di tipo micro, come le caratteristiche psicologiche dell’individuo, sono state tralasciate all’interno del lavoro in merito svolto dall’OMS.
Nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11;2019), si può osservare la presenza di una comprensione più olistica, in cui si evince un crescente riconoscimento del ruolo del lavoro professionale nella salute mentale (ovvero un focus sul livello micro).
In merito a quest’ultima, finora gli studi esistenti hanno suggerito un legame tra il disturbo ossessivo compulsivo di personalità (DOCP), chiamato anche disturbo anancastico di personalità, (DAP; classificazione ICD) burnout e depressione, tuttavia non vi è stato alcuno sforzo sistematico nell’ indagare il ruolo di tale disturbo sul decorso dello stress lavoro correlato.
Il DOCP ha una prevalenza del 3-8% nella popolazione generale, si riscontra maggiormente in individui più anziani e meno istruiti, mentre non si hanno dati a sufficienza inerenti la distribuzione nei sessi e il suo decorso. Questo disturbo di personalità, similarmente a tutti gli altri, co-occorre con altre patologie mediche e psicologiche (Diedrich & Voderholzer, 2015).
In uno dei criteri diagnostici del DOCP (APA;2013), viene descritta un’eccessiva dedizione al lavoro e alla produttività a discapito delle attività di svago e delle relazioni interpersonali, che vengono percepite generalmente come una “perdita di tempo”. Nei racconti di pazienti con questo disturbo o con tratti di personalità afferenti allo stesso, vengono spesso riportate delle difficoltà nello stare in un “tempo non produttivo”, la tendenza a stare poco in contatto col piacere, la rilassatezza e lo svago, anche se tutto ciò viene vissuto in modo egosintonico. Sono spesso i partner o i familiari di questi pazienti a esperire uno stato di insoddisfazione a causa della mancanza di un tempo di “stasi” da passare con queste persone, che seppur presente, è caratterizzato da una scarsa coloritura emotiva; il DOCP è caratterizzato infatti dalla presenza di inibizione emotiva (Dimaggio et al., 2011). I partner di questi pazienti descrivono spesso di sentirsi giudicati su temi morali ed etici, il DOCP è caratterizzato da perfezionismo e alti standard che vengono imposti al sé e agli altri (si potrebbe parlare di un perfezionismo eterodiretto come descritto da Hewitt, ma su temi specifici, come quelli morali).
La lotta interna che questi pazienti esperiscono con i loro standard, generalmente impedisce il raggiungimento di alti livelli di efficienza in campo lavorativo (Dimaggio et al., 2015), per cui si potrebbe ipersemplificare dicendo che lavorano tanto, ma non necessariamente bene, considerando che spesso procrastinano.
Inoltre presentano alti livelli di sofferenza quando percepiscono di perdere il controllo, che viene esperita generalmente con le emozioni di ansia o rabbia (Dimaggio et al.,2015); spesso questi pazienti possono essere poco capaci di esperire altri stati affettivi, come ad esempio, la tristezza.
L’“iperlavoro compulsivo” di queste persone come può essere concettualizzato? È sicuramente un coping, che come quelli più ostici da modificare è considerato estremamente funzionale per la persona stessa. Se ipotizziamo di sradicarlo, cosa rimane? Il deserto: una vita vuota di emozioni e di drive interni, dove tutto è imposizione e dover fare – perché così è giusto.
Questo “iperlavoro compulsivo” potrebbe apparire come strettamente collegato alla” work addiction”, per cui il DOCP dovrebbe risultare uno dei maggiori fattori di rischio? Non sembra che la relazione sia così lineare.
L’OCPD/APD è stato identificato come il primo, tra i disturbi di personalità, in termini di costi medici diretti e di minore produttività, superando anche i costi del disturbo borderline di personalità (DBP) (Soeteman et al.,2008).
In alcuni studi sui pazienti “work addicted” è stato descritto come essi presentino i classici sintomi delle dipendenze, quali la perdita di controllo sul comportamento e il ritiro, ma nessuno di questi sono criteri descritti nel DOCP.
Inoltre, non tutti i casi di work addiction sono legati a un rigido perfezionismo, che invece si riscontra alla base del DOCP. In studi recenti condotti su un ampio campione di lavoratori provenienti da vari paesi, la work addiction è risultata correlata al disturbo Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) e al DOCP (Andreassen et al., 2016;Atroszko et al., 2017).
In campo clinico, si riscontrano tipologie diverse di “work addicted” (Atroszko ,2019; Robinson. 2014). Se concettualizziamo la work addiction come un coping, come precedentemente detto, osserviamo come la sua funzione comportamentale iniziale sia necessaria per gestire altre psicopatologie sottostanti e può risultare specifico per disturbi come DOCP/DAP o ADHD.
Un’altra interessante relazione dal punto clinico e psicosociale è rappresentata dal legame tra DOCP, work addiction e burn out. Quest’ultimo è stato concettualizzato da alcuni autori come il prodotto finale di uno stato prolungato di work addiction e DOCP (Ahola et al., 2006; Toker et al., 2012). Tuttavia, attualmente non sono presenti studi sufficienti per comprendere se il burn out sia un’entità clinica a sé stante o un fattore di rischio o una componente di altre malattie e disturbi (Bianchi et al., 2015).
Emerge in modo chiaro come vi sia un’area di ricerca poco sviluppata inerente ai fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi in campo lavorativo, che meriterebbe un’integrazione con i framework esistenti.
Un maggiore interesse in questo settore permetterebbe di evitare di osservare la costante trascuratezza del ruolo della salute mentale in altri domini di vita e in altre condizioni di salute (Prince et., 2007). Al fine di muoversi verso un crescente riconoscimento del ruolo dei disturbi psichiatrici nel benessere generale, sarebbe utile pensare a reti più ampie di collaborazioni, in particolare tra esperti in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, management ed economia, psicologi clinici, psichiatri e psicoterapeuti.
L’articolo è stato scritto dalla dott.ssa Consuelo Enzo – Psicologa Psicoterapeuta
Bibliografia
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