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di Nicole Adami
Leggendo le centinaia di post nelle community di mamme, nelle pagine di influencer, sotto i quotidiani che hanno rilanciato i tragici fatti di cronaca accaduti a Roma all’ospedale Pertini, sono emersi migliaia di commenti negativi, che ci fanno interrogare sulla situazione nei reparti di ostetricia e ginecologia in Italia.
La cronaca a volte diventa megafono di un disagio molto più vasto, ed è questo il problema da indagare.
Come mai questa situazione?
E’ la carenza di personale? Allora come spieghiamo tutte le testimonianze negative di un decennio fa, dove non c’era questa carenza di personale?
E’ stato il Covid? Allora come giustifichiamo tutte le mancanze ricevute da chi ha partorito prima del 2020?
Partiamo dalla medicalizzazione.
Il parto infatti non è una patologia, ma un evento fisiologico che attraversa diverse fasi, le quali hanno una costante: il dolore materno.
Il ruolo del personale ostetrico-medico nella gravidanza fisiologica è quello dell’accompagnamento nella gestione del dolore, del monitoraggio dei parametri fisiologici e all’individuazione di rischi.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda di avere “una mamma e un bambino in perfetta salute con il livello di cure più basso compatibile con la sicurezza”.
Il livello di cure più basso però non significa dare poca cura e poca attenzione, come purtroppo accade di frequente.
Creare le migliori condizioni possibili durante e dopo la nascita è fondamentale, perché un’esperienza negativa nel parto e nel post-parto è associata a morbilità materna cronica.
Dalle migliaia di testimonianze lette, sembra che ciò non stia avvenendo da molto tempo in tante strutture.
Parto e dolore
Il dolore è un tema cruciale. Il McGill Pain Index, indice che quantifica le sensazioni di dolore, ci dice che il dolore del travaglio è inferiore solo a quello provocato dall’amputazione di un dito. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/1235985/
Il dolore quindi è connaturato al travaglio e al parto, ma COME si aiuta una donna a stare nel dolore fa un’immensa differenza nell’esperienza del parto. Ad esempio il ricorso alla parto analgesia (epidurale) ha dato prova di grandi benefici. La partoanalgesia è inserita nei LEA, livelli essenziali di assistenza.
La percentuale ancora bassa di parti con analgesia in Italia è correlata alla scelta economica di non avere anestesisti di reparto 24/24 h, ma la scelta di non garantire un sollievo durante il travaglio è anche correlata al gender bias sul dolore.
Ovvero alla poca importanza che viene data al dolore femminile, con un atteggiamento di fondo sadico e banalizzante. Maggiori sono gli stereotipi di genere negli operatori sanitari, maggiore è l’atteggiamento cinico e minimizzante sul dolore e la fatica.
Nei reparti di ostetricia è assai diffusa la banalizzazione della sofferenza e del dolore, sia durante che dopo il parto. Essere invalidati nella sofferenza fisica è un’esperienza mortificante, psicologicamente difficile da elaborare.
Una ricerca del 2018 sui fattori che creano un’esperienza di parto positiva, raccomanda programmi di sostegno emotivo, che includono rilassamento, uso di musica, modalità rassicuranti e richiesta di consenso alle procedure mediche durante il travaglio, questi programmi dovrebbero essere implementati nei piani di salute materna dei Paesi. https://reproductive-health-journal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12978-018-0511-x
Sarebbe interessante un’inchiesta nazionale per capire se queste linee guida scientifiche vengano applicate in tutti i reparti. Perché le modalità derogatorie, invalidanti e critiche che abbiamo letto in tutti i commenti di chi ha avuto esperienze di parto, mostrano un quadro molto lontano dalle best practice e allarmante.
Il tema del dolore e del sostegno emotivo si collega al delicato argomento della violenza ostetrica.
La violenza ostetrica viene definita da:
– Interventi di routine con eccessiva medicalizzazione eseguiti sulla madre e/o sul bambino
– Abuso verbale, umiliazione o aggressione fisica, utilizzo di modalità dolorose nelle visite
– Insufficiente disponibilità di attrezzature mediche e strutture inadatte
– Procedure mediche attuate senza aver fornito informazioni complete ed esaurienti, quindi senza consenso informato.
– Qualsiasi forma di discriminazione culturale, economica, religiosa ed etnica.
– Banalizzazione del dolore
La prima ricerca nazionale realizzata da Doxa per conto dell’Osservatorio ONDA, ha fatto emergere che il 21% delle donne italiane con figli di età tra 0-14 anni, dichiara di aver subito maltrattamenti fisici o verbali durante il parto. Il 27% delle madri ha evidenziato carenza di sostegno e di informazioni sull’avvio dell’allattamento, al 13% non è stata concessa un’adeguata analgesia dopo averla richiesta. L’indagine ha suscitato una critica da parte delle società italiane di Ginecologia e Ostetricia, nel 2019, hanno presentato nuovi dati meno allarmanti.
Servono nuovi dati che descrivano la situazione post pandemia, dati che probabilmente arriveranno dall’indagine iMAgine Euro.
Il post partum ospedaliero
A partire dagli studi di Klaus and Kennell, si è evidenziata l’importanza di garantire un legame costante tra la mamma e il nascituro nelle prime ore dopo la nascita.
La pratica del bonding, ovvero il contatto tra neonato e madre dopo la nascita, si traduce nello skin to skin, il contatto pelle a pelle in sala parto. Una volta passate al reparto di ostetricia, invece, la pratica prevalente oggi è il ROOMING-IN. Ovvero tenere il neonato in stanza con la madre giorno e notte, con una culla posizionata al fianco del letto della madre.
E qui nascono molte questioni. La madre, dopo il parto, in che condizioni fisiche e psicologiche è? Il parto è un passaggio sfiancante e molto pesante. Quante madri sono abbastanza in forze per occuparsi da sole del nascituro?
La pratica del rooming-in ha un vantaggio economico per le aziende sanitarie? Pare di si.
Ma basta l’economia per spiegare l’uso intensivo e poco razionale di questa pratica, anche quando le madri sono sfiancate, devastate dalla stanchezza e doloranti dopo il parto?
No, non basta.
Dietro alle scelte della gestione del Post Partum di oggi ci sono studi e divulgazioni di carattere psicologico. Negli anni ‘80 era normale essere portati al nido dopo la nascita, si è visto nel tempo che per i neonati invece stare con la madre è la cosa più naturale.
Ma con la madre in che condizioni? Con chi al suo fianco?
Perché non è solo questione di numero di ostetriche presenti in reparto, non è questione di economia del personale, non è questione di visite limitate per pandemia.
Se così fosse, non dovremmo avere testimonianze negative antecedenti al Covid.
Colpevoli anche noi psicologi, è stata divulgata una versione banalizzata e ingenua della teoria dell’attaccamento: come un elemento “necessario alla sopravvivenza e urgentissimo”.
La diffusione di questa versione estrema dell’attaccamento ha creato una sorta di “dogma culturale”: l’idea che se la mamma non sta sempre e da subito col bambino, qualcosa di tragico e irreparabile accadrà nel bambino.
L’atteggiamento di fondo che la società contemporanea ha sviluppato verso la genitorialità e la maternità è molto colpevolizzante e rigido. Quello che arriva a una neomamma è il messaggio dell’accudimento del figlio in termini di iper-performace: “devi essere sempre al 100%, sempre responsiva, sempre contenta, allattare al seno, fare alto contatto, altrimenti sono guai”.
L’uso di pratiche di accudimento che siano responsive e di vicinanza ha un senso biologico innato, non si mettono in discussione, perchè favoriscono la sopravvivenza della specie e stanno alla base del sistema biologico e motivazionale dell’attaccamento. (Bowlby-Liotti).
Ma la pressione per l’applicazione rigida, immediata e totale di questi principi ha creato un mostro:
primo tra tutti un rooming-in dove non si tiene conto dello stato fisico della madre.
In secondo luogo, un elenco di rigide procedure che vengono presentate come necessarie per costruire un buon legame. Ma la relazione di attaccamento sicuro si instaura non tanto sulla base di procedure e azioni meccaniche.
L’attaccamento è un sistema biologico e primario di sicurezza interpersonale, molto più complesso di procedure e liste di cose da fare, che si struttura nei primi anni di vita in una costante dinamica di vicinanza a separazione graduale.
La psicologia può fare qualcosa?
Si, può aiutare in una divulgazione scientifica meno estremista e più accurata.
L’attaccamento dipende in parte dalle cose che si fanno, ma quello che conta maggiormente è l’assetto mentale del genitore, la capacità adulta di gestire le frustrazioni. Bisogna riuscire a riorganizzare la propria vita per fare spazio al nascituro, sintonizzarsi con il bambino reale, con le caratteristiche proprie di quel bambino che sono uniche, per offrire ciò di cui ha realmente bisogno, in termini sia fisici che emotivi. E per sintonizzarsi con un neonato, il genitore, soprattutto la madre, deve essere a sua volta sostenuta e aiutata concretamente.
Cosa si può fare oggi per migliorare la situazione a partire dal parto?
Ci sono alcune aspetti fondamentali che negli ospedali vanno ri-considerati:
– Serve una divisione, sia nei pronti soccorsi che nei reparti, tra gravidanze fisiologiche e patologiche. Mettere nella stessa stanza donne che stanno vivendo un aborto (che sia spontaneo o volontario), con donne che stanno partorendo, è inconcepibile. Così come donne con complicazioni messe in stanza con donne che vivono gravidanze fisiologiche senza problemi.
– Informare le donne di tutte le fasi del parto e post parto, con corsi preparto più aggiornati e completi. Che includano non solo le informazioni sulla fisiologia, ma anche gli aspetti sulla pratiche in sicurezza, sull’allattamento al seno e sull’alimentazione artificiale, sugli aspetti emotivi e psicologici del diventare genitori.
– Inserire nei reparti la figura degli psicologi perinatali, che sostengano i genitori nella transizione alla vita da genitori e che monitorino la salute mentale delle madri anche a 1-3-6 mesi dal parto, per intercettare situazioni di disagio.
– In caso di rooming-in, aumentare le ore di permanenza in reparto del padre o della figura di riferimento per la donna.
– Istituire una rete di consultori che dopo il parto offrano sostegno all’allattamento a domicilio, nel primo mese dopo il parto.
– Offrire al personale medico, ostetrico e infermieristico una formazione continua che includa la disciplina psicologica, per migliorare gli atteggiamenti di cura, diminuire il gender bias sul dolore, inoltre fornire informazioni scientifiche ed equilibrate sulle dinamiche relazionali dell’attaccamento, senza estremismi.
– Creare osservatori regionali sulla violenza ostetrica in modo che i casi vengano puntualmente segnalati e, se accertati, puniti.
I tempi sono maturi per rendere l’esperienza del parto e l’inizio della vita un momento più lieve e positivo, rispetto a quanto fatto in questi anni.
L’articolo è stato scritto dalla dott.ssa Nicole Adami – Psicologa Psicoterapeuta
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